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Le humanities per lo sviluppo della cultura politecnica

di Sergio Pace (Dipartimento di Architettura e Design).


Poche cose sono opinabili, nel mondo accademico, come i World University Rankings. Ciononostante, la classifica delle migliori università del mondo può essere uno strumento di confronto assai utile tra realtà diverse: ad esempio, tra scuole politecniche ovvero tra atenei che, per tradizione o missione, vedono una presenza rilevante di discipline scientifiche e tecnologiche, sul piano della didattica così come della ricerca.

Sarebbe complesso analizzare i fattori che determinano le posizioni sempre trionfali di istituti come MIT o CalTech, ETH o EPFL. Probabilmente, la presenza di risorse eccezionali, nemmeno lontanamente comparabili a quelle disponibili in un ateneo come il Politecnico di Torino, rende il confronto azzardato in partenza, mentre altri fattori entrano in un gioco complesso, che riguardano ciascun singolo ateneo così come il contesto entro cui esso opera.

Tra gli altri, però, un elemento salta agli occhi. La maggior parte dei grandi atenei politecnici del mondo – e, in particolare, di quelli unanimemente riconosciuti come leader in questo settore dell’educazione – offrono ampio spazio alle scienze umane e/o sociali. La Division of Humanities and Social Sciences di CalTech, la School of Humanities, Arts and Social Sciences di MIT, il Departement Geistes-, Sozial- und Staatswissenschaften di ETH, il Collège des Humanités di EPFL sono realtà straordinarie, dove si offre formazione e produce ricerca ad altissimo livello; realtà che contribuiscono a caratterizzare e, quindi, rendere attrattivi questi atenei molto di là dalle barriere imposte dalle scienze esatte.

Il nostro Politecnico, peraltro nato dalle ceneri del Regio Museo Industriale dove, ad esempio, aveva trovato ospitalità il Laboratorio di Economia Politica di Salvatore Cognetti de Martiis, sembrerebbe aver col tempo rinunciato a questa potenzialità, nonostante le brillanti prestazioni di singoli studiosi, più o meno spesso riuniti in laboratori, gruppi di ricerca, corsi di dottorato. Alla fine, ha trionfato la tradizionale bipartizione in scienze dell’architettura e scienze dell’ingegneria, nonostante ad esempio il «sogno quasi realizzato» di costituire un Istituto di Scienze Umane, condotto negli anni novanta da Carlo Olmo ed altri. Spesso importante, ma raramente continuo, è rimasto lo spazio lasciato alle humanities: è difficile dare dati inoppugnabili, ma uno sguardo anche fugace ai dati del MIUR restituisce un profilo da questo punto di vista preoccupante: su 893 strutturati, nel Politecnico solo 28 appartengono alle aree comprese tra la n. 11 e la n. 14; l’area n. 10 (Scienze dell’antichità, filologico-letterarie e storico-artistiche) non vede alcun rappresentante in ateneo.

Da qualche tempo la rotta si direbbe, almeno in parte, modificata. Tra gli insegnamenti opzionali di molti corsi di laurea, ad esempio, si è visto nascere e crescere l’interesse nei confronti di discipline essenziali anche per le scienze dell’ingegneria e dell’architettura: la filosofia e la storia (non solo della scienza o dell’architettura), l’etica, il diritto della comunicazione sono entrate a far parte – sia pure in maniera provvisoria – del modello formativo politecnico. Anche se, in questo senso, ancora molto è possibile fare, si tratta comunque di un buon passo in avanti. Però è forse possibile anche imporre un cambio di marcia, per provare a rendere questi tentativi, pur importanti, caratteri permanenti dell’ateneo.

Occorre, infatti, rendere le scienze umane e sociali protagoniste di un’intera area di ricerca, all’interno del Politecnico di Torino. Occorre, cioè, organizzare gruppi e laboratori di ricerca dove conoscenze, esperienze e persino passioni differenti possano davvero finalmente essere messe a confronto su temi comuni, in un’accezione di multi- e interdisciplinarietà finalmente non banale.

La sfida della complessità impone scelte non sommarie: non è (più) possibile rimanere credibili, sul mercato della ricerca internazionale e persino sulla scena culturale nazionale, garantendo soltanto una forma di supplenza nei confronti di ambiti disciplinari che la cultura politecnica – nel senso più puntuale del termine – non riesce (più) a coprire. Non è possibile, cioè, parlare di comunicazione scientifica senza avere solide conoscenze di linguistica e semiologia; non è possibile parlare di città senza lasciar la parola a sociologi, antropologi e studiosi della civiltà di massa; non è possibile parlar di fisica teorica sapendo poco di filosofia teoretica. D’altra parte – come già sta avvenendo sotto traccia in molti gruppi di ricerca di rilievo anche europeo – le scienze umane e sociali possono arricchirsi grazie a uno stretto contatto con molte discipline dell’ingegneria, dando luogo a uno dei terreni di ricerca oggi più fertili: le digital humanities costituiscono uno scenario che il Politecnico di Torino dovrebbe occupare da protagonista, pensando agli innumerevoli campi di applicazione che, in Italia e in Europa, danno luogo a opportunità straordinarie di applicazione – dal patrimonio artistico e architettonico alle creative industries, dalla digital art all’infografica, dal gaming alla didattica assistita, e così via.

Il Politecnico di Torino dei prossimi decenni dovrà certamente accogliere e possibilmente guidare una sfida cruciale, contraddistinta dalla consapevolezza culturale e politica delle conoscenze tecniche. Rivendicare il primato unico della tecnica – anche quando intesa in termini molteplici, cioè politecnica – non è più ragionevole in un contesto globale di sfide che richiedono scelte innanzitutto politiche e culturali. Anche solo a scala urbana, per riconquistare il ruolo di primo piano che giustamente – assieme agli altri atenei piemontesi – gli compete, il Politecnico dev’essere capace di costruire scenari ad ampia scala e dimostrare di essere in grado di attuare scelte politiche rilevanti, producendo un vero modello di nuova classe dirigente, a parziale o totale sostituzione di quella che ha governato la ville industrielle del passato.

Non più spettatore passivo, il Politecnico sempre più dovrà essere in grado di mirare a obiettivi di alto livello, che riportino Torino al centro della scena non soltanto accademica internazionale, divenendo polo di produzione, diffusione e interscambio di una cultura della complessità nel senso pieno del termine. Le scienze umane e sociali, in questo senso, sono indispensabili: per includerle in un progetto culturale complessivo non bastano segnali timidi, incertezze o mosse del cavallo. Occorrono gesti, anche simbolici, di rilievo: ad esempio, e solo per rimanere sulla contingenza di questi giorni, perché il Politecnico non potrebbe inserirsi con autorevolezza nella questione del trasferimento forzato – e finora mal motivato – della biblioteca della Galleria d’Arte Moderna e Contemporanea, rivendicandone così non soltanto l’utilità, ma persino la necessità? Arrivando, cioè, a comporre, con le collezioni storiche delle proprie biblioteche d’architettura e ingegneria, il più grande polo bibliotecario della Scienze e delle Arti del nord Italia, e uno tra i maggiori d’Italia e d’Europa?

Forse è davvero arrivato il momento di chiedere l’impossibile, per essere realisti.